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IL FILO ARANCIONE - terza raccolta - "Un Direttore Scomodo"

by L'aquila Signorina

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[...] «Tu sei un caso un po’ particolare». Incrociò le braccia sul tavolo; sul viso il mezzo ghigno sempiterno. «Forse anche pericoloso. Sei un idealista, la razza peggiore. Potevi affermarti come scienziato; la stoffa ce l’avevi. E invece ti sei messo in testa di fare il salvatore degli oppressi», aggiunse stringendo gli occhi fino a farne due strette fessure, le labbra stirate in una specie di ghigno. «Forse non te ne rendi conto, ma qualcuno, fra quelli che ti ascoltavano, stamattina, non esiterebbe a farti eliminare, se potesse. Un casuale incidente stradale o anche, più semplicemente, così» e mostrò la mano con l’indice teso e il pollice a simulare un grilletto. Qualche congressista defezionario cominciò a rifluire verso la caffetteria. Fu l’ultima volta che incontrai Spencer. Non so se mi evitasse di proposito, ma le nostre strade non si incrociarono mai più. Forse aveva già iniziato a lavorare per puntellare la candidatura di un sostituto adatto, una volta che il mio mandato, come direttore dell’Agenzia, fosse arrivato vicino alla scadenza. Non mancava molto.
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[...] Nel 1988 si erano estratte nel mondo oltre ottocentomila tonnellate di nichel, il che, per inciso, era anche il segno che averlo dichiarato cancerogeno non aveva messo in crisi alcuna industria, come ogni volta eravamo stati accusati di voler fare. Alla nostra valutazione era seguito un miglioramento dei metodi di estrazione e di raffinamento, con la conseguenza di ridurre i rischi nei confronti di chi era esposto per motivi di lavoro. Era migliorata perfino la produttività ! L’anno dopo, nel 1989, venuti a conoscenza che c’erano dei dati nuovi, avevamo riconsiderato il nichel e i suoi composti, e la loro cancerogenicità era stata confermata con maggior forza e maggior dovizia di particolari. Quella volta la reazione - violenta, perfino disordinata - era arrivata ben prima che la valutazione fosse pubblicata. Subito ci fu chiesto di non pubblicarla e, visto che non avevamo acconsentito, di dilazionare l’uscita della monografia in attesa di ipotetici nuovi dati. Erano arrivate telefonate e dopo le telefonate le visite, urgenti e discrete. Non s’era trattato di voci o di visitatori qualunque: un portavoce del ministro degli esteri del tal paese; un viceministro o un capo di gabinetto del ministro di un'altra importante nazione. I ministri in persona non s’erano mai fatti vivi.
5.
[...] Un caro amico mi spiegò che, presentandomi al concorso, avevo disturbato certi accordi, certe spartizioni faticate e complesse. Rischiavo di far inceppare un meccanismo clientelare intricato: «Avresti dovuto prendere anche tu degli accordi, venire a patti. Guarda che non te lo sto consigliando, ti metto solo in guardia» Fu così che feci quella benedetta telefonata al presidente della commissione. L’illustre cattedratico, dall’altra parte della cornetta, mi assicurò che il mio nome non gli era certo sconosciuto e che, per l’appunto, era meravigliato che mi fossi presentato senza preavviso; generalmente non si faceva, ecco. Non potevo almeno andare a Roma a trovarlo ? Se ne sarebbe parlato, avremmo forse potuto trovare una soluzione. Promisi di pensarci e di richiamarlo, ma non avevo alcuna buona ragione per andare a Roma in quel periodo, e così non ci andai. Da quel momento in avanti, il messaggio che ricevetti fu univoco. «Non hai altra scelta; devi ritirarti»
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[...] «Non siamo più in gara; non so neppure se sia bene continuare. Vedi», e mi mostrò un fax che arrivava da Boston «mi chiedono perché non ho ancora comunicato i dati. Avrei dovuto averli da più di una settimana, e invece solo domani inizieremo le analisi del DNA». «Quello che si è fatto in questa settimana», attaccai «costituisce la base per delle misure di prevenzione …». «Sarà», mi interruppe «ma per me è più importante capire perché una cellula, a un certo punto, decide di cambiare programma; cos’è che la fa deviare verso una crescita incontrollata. Non potremmo concentrarci sulla ricerca e quelle valutazioni che tu dici farle fare a qualcun altro ?». Ebbi il mio da fare per spiegargli che non c’erano altri istituti che si occupassero di prevenzione primaria, che le nostre valutazioni erano strumenti indispensabili e che solo la loro solidità scientifica faceva sì che potessero reggere alle critiche e agli attacchi di chi anteponeva gli interessi economici alla protezione della salute. «D’accordo», replicò «abbiamo la fortuna di fare ciò che amiamo e, in più, di essere utili. Ma arrivare al punto di dire che la nostra è una situazione di privilegio mi pare eccessivo».
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[...] Di certo il clima si era irrigidito e, chissà, forse anche il modo di fare di uno come Winston doveva la sua accresciuta arroganza alla Guerra del Golfo. Già da mesi serpeggiava la voce che per pagare la guerra ci sarebbero stati dei tagli ai fondi per la ricerca. E di sicuro i britannici, che Winston rappresentava nel Consiglio direttivo dell’Agenzia, erano tra quelli che di soldi e di soldati ne avevano messi più di ogni altro in Europa. Del resto, già dopo la caduta del muro di Berlino, alla grande speranza che i finanziamenti per la sanità e la ricerca non sarebbero più stati sacrificati a favore delle spese militari, era seguita la più amara delle delusioni.
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[...] Egli insisteva che la quantità di dati non era mai sufficiente. Pretendeva che si scavasse nel passato di un maggior numero di persone, che si sviscerassero i dettagli della loro vita; in una ricerca che doveva ignorare qualsiasi privacy o interesse umano, scartando una partecipazione che, per carità, avrebbe potuto attentare alla divina obiettività. Gli individui erano numeri e un numero più alto contava di più di un numero più basso, e un maggior numero di dettagli di più di un numero minore: la quantità avrebbe permesso un salto di qualità. Tra le molteplici ragioni del progressivo affermarsi della statistica, una delle principali era senza dubbio la necessità di mettere ordine nei risultati ottenuti sia dagli epidemiologi che dagli sperimentalisti. Ciò aveva, a sua volta, reso evidente che per adempire a quel compito era necessario che i risultati fossero ottenuti seguendo una procedura che ne consentisse la quantificazione e, soprattutto, la loro analisi statistica. Non bastava, a cose ormai fatte, tormentare i dati, per spremere elementi che dentro non c’erano, né sollecitare il ricercatore perché fornisse dettagli che, nel modo usuale di presentare l’esito del suo lavoro, non si era mai sognato di esporre. Apparve essenziale che per poter fare analisi corrette e quantificare in modo adeguato, l’esperimento o lo studio epidemiologico venissero progettati fin dall’inizio con l’aiuto degli statistici.
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[...] Stefano Pignati era stato chiamato all’ultimo momento per parlare dell’argomento che era stato scelto per la presentazione di Niels. Pignati era un macina lavoro. Svelto, e aveva anche imparato a parlare in pubblico. Scandiva le parole annegando il suo pessimo accento in una pronuncia sforzata. Voleva essere chiaro e convincente. Per riuscirci semplificava le cose, smussava gli angoli, prendeva qualche comoda scorciatoia. Alla fine, però, chiunque avrebbe dovuto accorgersi che stava citando e interpretando malamente, con errori evidenti, i dati pubblicati dall’Agenzia e che quanto aveva detto, come le conclusioni che se ne potevano trarre, era l’opposto di ciò che Niels avrebbe detto o dedotto. Eppure era riuscito a dare un’impressione di credibilità. L’uditorio era stato attento e, in maggioranza, convinto e consenziente. «Stefano parla bene», dissi con Turri «ma certe percentuali di incidenza erano sbagliate». «Cosa vuoi che importi qualche percentuale», sbuffò lui.
10.
[...] Così eccomi trasformato nel manager efficiente, quello che emette sentenze: «Ciò che fai è interessante, ha una buona “giustificazione scientifica”», come se la sapessi definire, «lavori bene, ma non puoi più continuare. Il tuo tema di ricerca non è più in linea con la ‘vocazione’ del centro». Anche ‘vocazione’ era un termine che di rado falliva. Produsse un attimo di esitazione, quasi di rimorso. Passato quello, la reazione fu rapida: «Non lo sapevi da tempo ? Per quale motivo non mi hai fermato prima, perché il mio lavoro andava bene l’anno scorso e non va ora ?». La domanda era sensata e il compito più duro. «Capisci, in un centro di ricerca come il nostro», indorai la pillola, «è giusto che si lasci una certa libertà ai ricercatori. Devono, dovete, avere la possibilità di sondare campi nuovi, di provare, di cercare soluzioni in direzioni diverse. Ma ad un certo punto bisogna decidere. La ricerca può essere senza via d’uscita e va terminata; ha successo e può essere ampliata, o trasferita e coordinata altrove; ha un modesto successo e potrebbe anche essere continuata, ma, vedi, non per forza qui. Tu e la tua esperienza potete appoggiarvi ad un altro istituto, dove questo tipo di ricerca si fa e si può fare con più mezzi. Sempre che, è ovvio, tu voglia insistere a continuarla». Alla fine ci arrivai: era meglio se prendeva in considerazione l’idea di andarsene. Sbarrò gli occhi e prese fiato: «Ah, è così ?». Inghiottì senza saper più cosa dire.
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[...] Il notevole colpo di scena d’una riunione cui avevo partecipato di recente era stato che talune associazioni di oncologi clinici, dopo avere inneggiato per anni alle nuove molecole chemioterapiche scovate a decine dall’instancabile industria farmaceutica, stavano riconoscendo che forse s’era esagerato, che le dosi erano troppo alte e la durata del trattamento troppo lunga, che l’uso degli antiblastici avrebbe dovuto essere regolato più strettamente. Limitato a chi era specializzato e aveva avuto un training speciale. Un uso pacifico della chemio. Uno dei colleghi dell’Agenzia, scorgendo tali spiragli di ragionevolezza, era giunto, poveretto, ad accalorarsi, spingendosi a dire che i malati dovevano essere ‘protetti’. Apriti cielo ! Un coro di proteste s’era levato: ma come si poteva anche solo pensare di accusare i clinici di non prendersi abbastanza cura dei malati ! E c’era di peggio; si rischiava di soffocare la ricerca. «Ricerca ? Quale ricerca ?». Ma certo: la ricerca sui malati, no ? La ricerca clinica. «Ah, ecco». Prendendo una certa direzione si sarebbe arrivati al paradosso di dover spiegare tutto, per filo e per segno; convincere individualmente tutti i pazienti ! Qualcuno si rendeva conto, oppure no, dell’assurdità. Somigliava, a dir poco, a un sabotaggio.
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[...] Finanziando il progetto in Gambia, gestito fino a quel momento di comune accordo, si erano finanziati, e questo era noto, anche gli interessi dell’Inghilterra. La quale, adesso che le veniva chiesto di fare la propria parte, ‘l’ultimo miglio’, come si dice, si tirava indietro. Il guaio, però, era che la reazione italiana era mal gestita, da persone che non sapevano dare, di sé e del governo che rappresentavano, un’immagine convincente e credibile. Una chiusura irresponsabile avrebbe mandato a fondo, e il rischio c’era, i vantaggi reali procurati fino a quel momento a un paese in grandi ristrettezze, come il Gambia. Bisognava che il programma proseguisse, ad ogni costo. Interrompere la vaccinazione sistematica dopo essere riusciti a raggiungere, quasi senza eccezione, i bambini del paese, sarebbe stato peggio di un disastro sanitario. Un vero crimine. Parlai per due ore con il funzionario della Farnesina. Un discorso duro, senza concessioni. Lui voleva andare a fondo delle cose, voleva che gli facessi capire perché lui e l’Italia, della quale rappresentava gli interessi, dovessero continuare a dare denari per un fine sia pure nobilissimo, ma dal quale gli inglesi traevano un grosso vantaggio, sia morale che materiale, senza concedere alcun aperto riconoscimento all’Italia. Che gli spiegassi, che gli dessi argomenti validi, non voleva parole vuote. Parlammo senza reticenze, senza retorica, mettendo in luce le difficoltà e le asprezze che il progetto aveva incontrato
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[...] In America vigeva un grande rispetto per il cappello che portavi, bastava che lo mostrassi chiaramente, meglio ancora se lo esibivi con ostentazione. «Io lavoro per la Sprawl & Langer, ma oggi, se mi guardate bene, ho il cappello da scienziato puro. Osservatelo e osservatemi: non c’è alcuna ambiguità». E tutti, intorno a Tom, annuivano e si congratulavano, perché il modo di fare di Tom era limpido e diretto. Cosa ci fosse sotto al cappello non li riguardava, non si sognavano neanche di cercarlo; la fiaba calvinista alla quale credevano o fingevano di credere diceva loro che Tom non poteva che essere onesto: quel dì era scienziato indipendente, mentre l’indomani sarebbe stato il leale impiegato della sua corporation. «Hai forse dei dubbi sul conto di Tom ?», mi fu domandato con apprensione. Cercai di mantenermi su un tono scherzoso: «Non sempre cambiare cappello significa cambiare testa», dissi. «Credevo che tu volessi dire che è un cattivo scienziato», risposero loro con un sospiro di sollievo.
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[...] Misi assieme, dentro di me, il testo di una lettera da spedire al chairman che aveva seguito i lavori e a quello scelto per la riunione dell’anno venturo. Senza entrare in polemiche, li avrei portati a dover riconoscere che l’atteggiamento tenuto dal Consiglio era incompatibile con la missione dell’Agenzia e con i principi su cui era fondata. Se loro del Consiglio pensavano che quei principi non avessero più alcun valore o che il nostro centro non fosse più in grado di soddisfarli, allora che lo dicessero chiaramente, sollevassero il caso, ci fosse pure un dibattito, e che la loro, ma anche la nostra voce, venissero sentite. Lo strangolarci e il soffocarci, come stavano facendo, non era giusto. Né poteva servire. Il pensiero che potessimo fare altro e meglio non mi sfiorò. Per anni avevamo fatto, davvero, meglio di altri; nell’insieme andavamo ancora bene, secondo me, anche se dei cambiamenti si dovevano fare. Ma non mi ci soffermai a lungo. Ero teso, con tutto me stesso, nella difesa della parte operativa dell’Agenzia.
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[...] «Io me ne sbatto di cosa dice il comitato etico, io voglio sapere se il segnale passa tra due cellule e devo sapere se passa in vivo, non mi basta sapere che in vitro il passaggio c’è», diceva un giovane ricercatore. E sosteneva la necessità di arrivare al più presto alla sperimentazione sui pazienti, per confermare certe ipotesi che le elementari regole di prudenza avrebbero consigliato di saggiare ancora a lungo in laboratorio. La sua violenza verbale faceva un certo effetto in un uomo dall’aspetto di adolescente. Per lungo tempo gran parte della ricerca biomedica era stata fatta da dottori che, partendo dalle corsie o dal tavolo autoptico, arrivavano al laboratorio, alle provette, alle centrifughe, all’incubatore. L’impronta del clinico, l’idea del collegamento con il malato e con la malattia non si interrompevano mai completamente. Quel filo però era stato reciso e la ricerca pura era ormai in mano a persone che non avevano mai visto, né forse mai avrebbero visto, un malato; mentre la ricerca clinica veniva fatta soprattutto da medici che solo un equivoco permetteva di chiamare tali e per i quali i pazienti erano soprattutto dei numeri.

about

IL FILO ARANCIONE - UN DIRETTORE SCOMODO è il terzo e ultimo album di registrazioni audio basate sul nostro lavoro di riduzione e montaggio critico di sei romanzi di Lorenzo Tomatis (Sassoferrato, 1929 - Lione, 2007):

"Il Laboratorio" (Einaudi, 1965 - Sellerio, 1993);
"La ricerca illimitata" (Feltrinelli, 1974);
"Visto dall’interno" (Garzanti, 1981);
"Storia naturale del ricercatore" (Garzanti 1985);
"La rielezione" (Sellerio, 1996);
"Il fuoriuscito" (Sironi, 2005).

Si è trattato di un lungo percorso di rielaborazione - iniziato a giugno del 2020 - di un materiale letterariamente disomogeneo, dalla forte componente autobiografica e dove taluni episodi e personaggi vengono ripresi, trasfigurandoli, anche a distanza di decenni. Si è tenuta come faro e criterio, per la selezione e costruzione dei brani, l'ossessione pedagogica dell'autore nel voler trasmettere ai non specialisti gli snodi cruciali dell'evoluzione dei punti di vista scientifici intorno al 'gran flagello del cancro', mettendo in evidenza il groviglio di interessi che da sempre, in quest'ambito, connette ricerca, politica, industra e società.

Renzo Tomatis è stato un importante ricercatore sperimentale biomedico italiano nel campo della cancerogenesi chimica e, in particolar modo, nel settore dell’identificazione delle cause ambientali e professionali del cancro.

Dopo essere entrato allo IARC di Lione, cioè l’Agenzia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la ricerca sui tumori, come responsabile dell'unità di cancerogenesi chimica, nel 1967, Tomatis ne è stato direttore generale dal 1982 al 1993. Sua è stata l’idea delle ‘monografie’ (chiamate ‘libri arancioni’, per il colore della copertina), che tuttora costituiscono una delle principali referenze al mondo per la valutazione e la conoscenza del rischio cancerogeno legato alle sostanze chimiche.

Il ‘principio di precauzione’ (secondo il quale, in mancanza di dati epidemiologici, se una sostanza causa tumori negli animali da esperimento, va trattata come se fosse cancerogena per l’uomo ...), che le monografie IARC hanno posto all’attenzione dei legislatori di tutto il mondo dalla seconda metà degli anni ’70, soprattutto grazie all’impegno di Tomatis; ha rappresentato uno dei capisaldi nelle politiche di prevenzione primaria in campo oncologico.

I romanzi di Tomatis offrono uno sguardo unico sulla storia dell'oncologia, sulla politica della ricerca e sulle sue interconnessioni, non sempre esenti da conflitti di interesse, in un settore chiave per la biomedicina e la sanità pubblica come è quello del cancro.

Grande organizzatore (forse anche suo malgrado, e in questo in lui fu sempre vivo un certo conflitto), Renzo Tomatis è stato anche, nell'ambito della scienza 'pura', tra i primi al mondo a intuire l'importanza, in campo oncologico, degli studi sulla cancerogenesi transplacentare e transgenerazionale. Cominciando a parlare apertamente del ruolo procancerogeno delle alterazioni epigenetiche nella programmazione dei tessuti e degli organi; alterazioni dovute all'esposizione perinatale a sostanze chimiche e agenti esogeni in grado di agire, ad esempio, come interferenti endocrini.

Oltre a schierarsi a fianco di quanti iniziavano a inserire anche i tumori nel quadro della teoria della DOHaD (Developmental Origins of Health and Disease), Tomatis indicò anche - correttamente - nel fenomeno del cd. 'imprinting genomico' un possibile schema mediante il quale alterazioni epigenetiche prodotte in un organismo dall'esposizione materno fetale a sostanze chimiche o altri contaminanti possono trasmettersi alle successive generazioni.

credits

released February 28, 2021

La voce, negli album, è quella di Gabriele Argazzi.
Le registrazioni e l'editing audio sono stati realizzati tra novembre 2020 e febbraio 2021.

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L'aquila Signorina Bologna, Italy

L'aquila Signorina, dal 1995, sono Gabriele Argazzi e Barbara Bonora. Negli ultimi quindici anni hanno legato il loro lavoro come attori, registi e drammaturghi alla storia della scienza. Accanto alla messa in scena di bioplay su scienziati e scienziate, Le Signorine hanno di recente iniziato a immaginare e produrre percorsi audiologici all'incrocio fra letteratura, società è tecnoscienza. ... more

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