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LA FABBRICA TOTALE : Ottieri // Donnarumma

by L'aquila Signorina

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1.
[...] Subito la signorina S. con voce stentorea ha scandito la spiegazione della prova seguente, dopo aver distribuito i fogli nuovi in fretta e aver ricaricato la sveglia. Era un «reattivo» per scoprire le attitudini intellettuali non verbali, un classico dei test, chiamato Incastro: esso richiede che con gli occhi, con la fantasia, soppesandole e rigirandole nella propria testa, si incastrino figure geometriche disegnate a fondo pagina, dentro altre, in cima alla pagina, che hanno appositi spazi bianchi. Non è possibile aiutarsi con le dita, come verrebbe la tentazione; le dita non afferrano dei disegni. È un test complesso, che misura l’intelligenza, e in parte un’attitudine meccanica, dove molti fattori si mischiano. Per quanto ogni test voglia scoprire una faccia dell’uomo, in ogni faccia vi sono tutte le altre. "Via !", ha detto la S. Le teste dei disoccupati, quindici, si sono piegate. Si poteva notare un grande zelo. Soffrivano, a rigirarsi quelle figure senza potersi aiutare con le mani, in uno sforzo di manipolazione astratta, di forme innate. O si sarebbe potuto assistere alla nascita dell’idea, del processo ideativo, nel punto più profondo e remoto di tutta la mente umana. Ma dopo poco, come a scuola, uno tentava di copiare. Un altro alzava la mano per chiedere una spiegazione inutile [...]
2.
[...] «Li dobbiamo finire in giornata. Vengono anche da lontano, non possono tornare. Arriviamo a mezzanotte. Le prove individuali e il colloquio sono utili per quelli che superano le collettive.» «Ma gli altri?» «Come ieri. Diamo il rimborso spese e li mandiamo a casa.» «Ma bisogna almeno guardarli in faccia, da soli, sentirne la voce. Non ci si può fidare soltanto dei test» ho detto con convinzione non umanitaria, scientifica. «Vuol parlare anche con quelli che lasciano in bianco?» «Proprio con quelli…» «Ah, sì, sì, lei faccia pure la sua conoscenza con tutti, se ha piacere. Decide lei. Però adesso è l’una e un quarto. Io vado alla mensa. Sono mesi con questi esami che mangio freddo.» Purché il nuovo venuto provasse, ci battesse la testa, la S. si è arresa. Abbiamo annunciato ai candidati che c’era la mensa dello stabilimento per mangiare e che si ripresentassero nel pomeriggio. Prima si stringevano nel corridoio, interrogativi, poi si sono diretti a mensa, rompendosi in gruppetti strafottenti o divertiti; nell’insieme allegri. Mi sono precipitato con l’automobile a casa e ho mangiato di corsa con mia moglie [...]
3.
[...] Se si debbono collocare determinati uomini a determinati lavori e c’è uno scarto normale, direi umano, tra la domanda e l’offerta (sempre a favore dell’offerta…), la psicotecnica offre buoni strumenti di selezione e di scoperta delle attitudini: è già stato sperimentato. Ma qui la fabbrica non si trova a scegliere fra un gruppo di operai, per dividerli secondo le loro attitudini e le nostre esigenze. Qui giudichiamo un popolo intero. Gli eletti possono anche venir assunti nel nostro stabilimento, ma dove vanno i reprobi? Quando i giornali scrivono che la disoccupazione è un cancro, il male più grave che mina la società, bisogna sentirlo e vederlo per crederlo; essa butta all’aria, corrompe, ridicolizza tutti gli sforzi della ragione, di cui la psicotecnica è una delle ultime figlie. È un setaccio : non si seleziona, si screma. [...]
4.
[...] Anche i più esperti o intelligenti accettano sempre qualsiasi lavoro. La più grande ingenuità è quella di chiedere, per orientarsi, quale lavoro preferiscano, che è sempre una domanda ingenua; qui poi sarebbero tutti disposti a pulire anche i gabinetti; come se la fabbrica fosse una grande latrina. Al massimo, si pronunciano per la meccanica. Allora, all’ultimo di stasera, un giovane ragionevole e loquace, siccome voleva fare il meccanico, gli ho detto: «Ma guardi, che la nostra è una strana meccanica. È la meccanica di serie. Lei non ci farebbe il meccanico come crede lei… forse è monotona, noiosa…». Non ha reagito affatto, ed è rimasto seduto in uno stato d’attesa dove la ragione di colpo era più che morta. Oppure temeva un inganno. [...]
5.
[...] il colloquio è sempre difficile o assurdo, perché vi si usa lo strumento meno familiare agli operai, le parole, mentre proprio il lavoro manuale sta agli antipodi della capacità espressiva. Male se non parlano, male se parlano troppo e a vanvera. E meno di ogni altro aspetto, la consistenza morale, l’affidamento nel tempo si riescono a stringere nel colloquio, a prevedere: qui l’uomo, proiettato in avanti, sfugge al pronostico e la somma delle cifre odierne non dà sempre il totale che sarà dentro la vita domani. Questo è il rischio da indovino, cui non avrò risposta che fra mesi, e solo da quelli che sono stati assunti. Gli scartati nessuno li giudica più. Verrebbe il desiderio di mettersi accanto al candidato e di vivere lungamente con lui, per dare la garanzia di conoscerlo e rispondere in coscienza alla domanda: «Lo assumo?». Invece la psicotecnica è l’opposto di questa vita in comune; essa è una conoscenza condensata, resa necessaria dal numero e dalla fretta [...].
6.
[...] Sono in ansia per i risultati del mio vicino, poiché dobbiamo fare buona figura tutti e due. Io ho sfidato il suo mezzo titolo di studio, e in una azienda il selezionatore e i suoi assunti rimangono legati come il padrino e i figliocci. Dall’impegno con cui avvita e fa attenzione a me senza distrarsi, direi che lo sa. Conto da una parte del banco i miei pezzi fatti, bene o male ne ho montati qualche diecina, e li ho controllati con la sondina e sullo spianatore. Provo soddisfazione; peccato che quando si ripete trecento volte al giorno, questa soddisfazione del lavoro esatto si perde. Vado al gabinetto, accompagnato dall’occhio del mio complice liceale e padre di famiglia. Al ritorno rallento a una linea nuova in preparazione, nella parte alta del montaggio, la zona delle fasi difficili. Qui gli operai non mi badano; ci sono i montatori, anziani di fabbrica, che si infischiano dell’ufficio personale, essendo amici degli ingegneri e dei periti industriali. L’espertissimo e nasuto Di Meo, calvo, coi capelli sottili intorno alla testa, insegnava la fase a un altro proveniente dalle fasi più semplici. Manipolava la calcolatrice quasi montata, quando è un groviglio complicato da chirurghi; la rivoltava elasticamente come fa la balia col bambino sul fasciatore; poi ci scrutava dentro per l’intrico dei pezzi delicati. «Come un cieco devi lavorare, come un cieco» insegnava da gran maestro, imbonendo l’altro [...]
7.
Ugo 09:55
[...] «Racconta, andiamo, che c’è di nuovo. Così anche il dottore conosce la tua storia e può aiutarti». Il ragazzo non raccontava nulla. «L’hai rubato tu il pane?» Finalmente si è sentito balbettare: «Io no no, sarà cascato per terra. Mio zio accusa sempre me perché non lavoro». A guardarlo, aveva quindici anni. Aveva la voce secca, il torace gracile, rotondo come un tubo, che si sfaceva nelle mani grandi, lunghissime e ossute come il viso, e in più trasparenti. La voce gli usciva a scosse dalla bocca gonfia e da un taglio sul labbro; ma tutto il viso, pallido, pareva tumefatto. «Mio zio mi è corso dietro col coltello, sono scappato e non ci torno senza lavoro» si è sentito, come in lontananza, di nuovo. Tremava dal viso ai calzoni con un sottile dimenio. «Ma insomma, Ugo» ha gridato la signorina S. «ora devi tornare a casa. Tu un posto ce l’avrai. Te l’ha promesso il direttore. Dillo a tuo zio, digli che non ti picchi più. Ora è inutile che stai qui. Te lo promette anche il dottore.» Ella poi mi sussurrava a precipizio: «Lo zio sta alla M.E. ma non lavora quasi mai. Questo qui sarà venuto una diecina di volte. Ha una promessa del direttore. Ma dove lo mettiamo, ha vent’anni ma lo vede com’è?». [...]
8.
Accettura 15:09
[...] «La fabbrica, Accettura, ha le sue leggi. Noi lavoriamo non per oggi e nemmeno per domani… noi assumiamo insomma soltanto quando ci sono posti liberi… Noi non possiamo prendere un uomo se non c’è posto per lui. Se no dove lo mettiamo? Lì ad aspettare che si faccia libero un posto? Una fabbrica come la nostra non ha un posto di più o un posto di meno. Accettura, è la legge dell’organizzazione.» Chissà se capiva; comunque, ha voluto essere cieco e sordo nel suo diritto, difendendo ancora l’errore generoso di aver fermato il direttore, per cui non veniva più assunto. Ma era pronto a pentirsene: «Sì, mannaggia, mai l’avessi fatto. Mi mangio le mani…». «È la legge dell’organizzazione» ho proseguito allora con poca saliva in bocca. «Solo l’organizzazione produttiva decide. Questa fabbrica funziona solo perché l’organizzazione guarda al futuro e ci permette di vivere. Ora l’organizzazione, – e nessuno ci può niente, né il direttore, né il capo del direttore, né il presidente, in alta Italia, e io meno che mai – impedisce… impedisce, questa organizzazione, che vengano assunti altri operai. Che dunque venga assunto lei, Accettura.» A nominargli l’imbuto, ci sarebbe voluto passare attraverso. Ha risposto intelligibile, grave: «Voi avete ragione, dottore». [...]
9.
[...] Mentre Bellomo si ritraeva, dopo altri segnali di via libera, nel suo gabbiotto di vetro, l’autista è ripartito sicuro e io dietro. Eravamo abbacinati dal biancore arido dell’aria e intontiti, verso le due, dalla fame. Il direttore doveva pensare forte alle sue preoccupazioni. Uno zeppo, un ramo secco coperto di panni ... Accettura ! ... stava appiattato tra una colonnina e un oleandro, appena dopo l’angolo del nostro marciapiede sulla Statale, verso città. Perciò Bellomo lo credeva a casa sua sotto il muro, benché l’intera mattina – si è saputo dopo – l’avesse passata a tiro del gabbiotto. Piano piano, in prima, l’automobile del direttore si è affacciata sulla Statale e ha curvato; il prete ed io abbiamo lasciato qualche metro fra la nostra macchina e quella direttoriale. Non avevo abbandonato il passaggio sotto la pensilina, non m’ero disposto alla curva, che Accettura è saltato dal nascondiglio alla strada e ha camminato di traverso alla macchina nera. Prima che il parafango lo colpisse, ha alzato il braccio buono, come un uccello spennato, nero, con l’ala staccata, e ha fatto il movimento di tuffarsi sotto il radiatore, poi quello di parare l’auto. L’autista ha bloccato. Io anche ho bloccato, come se avesse scelto le mie ruote. Accettura blaterando strisciava davanti al radiatore fermo, insomma aggirava l’auto per conquistare il finestrino del direttore e 'conferire'. [...]
10.
[...] «Lei ha passato la visita medica. Questo significa che ha molte probabilità di essere assunto. Ma non oggi. L’ho già detto! Perché vi siete messi in mente che se passate la visita medica, il giorno dopo siete assunti? Chi ve lo garantisce? Non l’abbiamo mai garantito a nessuno. Vada e dica ai suoi amici che questa storia della visita medica ve la siete inventata voi. Noi non portiamo per il naso nessuno !». Da queste parole sempre più forti della sfgnorina S., Venezia, molle e silenzioso, è stato di nuovo sbattuto nell’angolo, ma i suoi occhi bui non facevano pietà. Non se ne andava. È suonato il telefono sul tavolo della S. e dal tono di lei ho inteso subito che era il direttore; Venezia, senza capirlo, ha drizzato appena le orecchie. Un lungo silenzio, rombava una lunga spiegazione del direttore. Alla fine la signorina S. ha ribattuto dentro il microfono, – comefa lei – spingendoci dentro, seccata, le parole: «Ci sarebbe qui uno di quelli che hanno passato la visita medica l’altro ieri». Silenzio della S. Poi: «È Venezia Raffaele. Gli ho detto che si ripresenti non prima di una settimana». Silenzio. «Sì, idoneo per il montaggio.» [...]
11.
Donnarumma 07:24
[...] La voce più ferma possibile, gli ho risposto senza gridare: «Faccio quello che voglio. E voi invece di fare la domanda, picchiate me e il direttore. È un buon modo per essere assunti…». Egli era sempre più accigliato e sordo. «Non capisco perché non vogliate fare questa domanda…» Ha chiesto, ricominciando da capo: «Se oggi la scrivo e stasera la mando, domani mi mandate a chiamare? Io debbo faticare subito. Ma voi la stracciate come stracciate quelle di tutti quelli che vogliono faticare». «Non le stracciamo. Le esaminiamo.» «Voi non esaminate niente. Voi avete battuto con me il pugno sul tavolo, e il direttore ...» «Il direttore…?» Risparmiava la sua violenza per riserbarla più in alto: «Il direttore fa i conti con me». «Decidete voi» ho concluso. È uscito abbastanza veloce, senza voltarsi indietro [...]
12.
[...] «Donnarumma» soffocava «ha infilato un braccio nel finestrino. Addosso a me, a me, me lo ha spinto, il braccio, piegato contro la gola, voleva strangolarmi.» «Ma Santoro?» «Santoro ha accelerato, quello ha dovuto sfilare via il braccio, se no gli si spezza.» Era ansimante. Non sarebbe mai svenuta. Già l’aggressione la considerava un episodio di lavoro, un incidente da liquidare con l’organizzazione tempestiva; già stava avviandosi fuori della mia stanza, al suo tavolo. Ma un conto se Donnarumma minaccia – lei ci ride – un conto se il suo braccio arriva addosso ! Lei era di una eccitazione sempre più pallida. Quella violenza imprimeva sul suo pudore sbrigativo, uno stravolgimento infantile, sul viso aveva un’aria gialla. Proprio non sapeva che fare, sedersi, raccontarmi ancora in piedi, andarsene. L’ho spinta allora a sedersi, per riposarsi, le ho detto: «Subito, alla polizia. Stavolta lo denunciamo alla polizia. Si sieda, signorina, stia calma». [...]
13.
L'indennizzo 01:18
Donnarumma ha rifiutato un sussidio una tantum che gli era stato offerto dalla direzione per il tramite del tenente dei carabinieri; il quale è in contatto con lui a causa della nostra denuncia; ma già lo conosceva! Gli era stato offerto il sussidio per bucare la vescica gonfia, nera, della sua ira; e perché, nonostante la denuncia e la diffida a non calpestare mai più il terreno della portineria, egli traversa dal muretto la strada e sfila lungo i vetri del laboratorio. Al posto di una seconda denuncia, anche il tenente ha consigliato il sussidio; era migliore un gesto di pace e per noi, forse, di liberazione. Rifiutando, Donnarumma esige, sempre per il tramite del tenente, una indennità fissa di mancata assunzione di lire quarantamila mensili. Come ormai usa fra noi e Donnarumma, la trattativa si è svolta ed è naufragata di lontano.
14.
La bomba 07:06
[...] Non si è udito un solo operaio parlare della bomba. Straniero, con tutta la commissione interna, tace. Gli altri non sapevano del fatto o erano del tutto indifferenti. In queste occasioni c’è una convenienza da più parti perché l’incidente venga classificato fra gli straordinari, un episodio che ha sfiorato bizzarramente la nostra vita, e che sarebbe vigliacco ritenere sintomatico o allarmante. Anche per me, per la S., è qualcosa di bizzarro; tuttavia a noi sembra di più d’averlo visto nascere, crescere e vorremmo oscuramente che ad esso, a noi, fosse data maggiore importanza. È insomma per noi un grave incidente di lavoro, come sarebbe per gli ingegneri lo schiantarsi di una pressa. Inoltre, la bomba non è stata lanciata su di noi: però la sentiamo nostra, offesi che per motivi gerarchici ci considerino degni di minacce, riserbando ad altri l’esecuzione di esse. [...]
15.
[...] Le operaie settentrionali, da sempre, collaudano una macchina per volta e con una sola mano. Qui, all’apertura dello stabilimento, una ragazza già pratica di questa macchina volle occupare la mano libera, tenuta in grembo; si fece affidare un’altra macchina e le compagne la seguirono riuscendo tutte a manovrare due calcolatrici per volta. Agli inizi della nuova fabbrica, questa prodezza delle donne di Santa Maria divenne una bandiera: "il gran pavese produttivo del sud" !. Nel tempo preso dal cronometrista per una sola macchina, ne entravano due: ed esse guadagnavano il doppio, superando lo stipendio degli specializzati, degli impiegati. Si accordarono allora con la direzione su una paga di una volta e mezzo. Guadagnano ancora molto, e poi esse sono visceralmente attaccate agli straordinari inseguendo un miraggio di ricchezza, proprio loro, le donne: le donne da cui a Santa Maria non escono mai soldi, ma unicamente figli. [...]
16.
Tra le novità all’interno dello stabilimento, passate le ferie, trovo Ugo al montaggio. Fa bella vista di sé in fondo al salone, a uno di quei banchi dove si inseriscono le molle nelle gabbiette… Il mio lavoro ! Siede proprio fra il giovane ligure – che nessuna donna ha sostituito e che fila sempre alla massima velocità, con le sole mani, la testa sempre più vagante - e il giovane marito di Santa Maria, il liceale. Questi pure, ormai, procede al ritmo di uno smaliziato, benché la sua testa da uccello e il lungo naso si appuntino in una attenzione concentrata. Ha conquistato confidenza col banco, non con il salone e la fabbrica; vive sempre lì per riparare al suo errore, solitario; assolve perfettamente la sua nuova condizione operaia, ma con un convincimento razionale. Dapprima non riconosco Ugo, ammantato da un camice ancora duro di amido e troppo largo, seduto ordinatamente, le membra ferme; però lo tradisce la faccia lunga e la pelle rossa, friabile e mi avvicino: quelle dita lunghissime come cacciaviti gli si mettono a vibrare, cercano le molle come le mani dei ciechi. Affretta il ritmo, dà un colpo falso all’attrezzo; gli sorrido e non risponde. Teme ancora. Ma è ormai degno e pulito, il suo sfacelo interrotto. La fabbrica sta dando alla luce e producendo anche la salvezza di questo uomo civile.
17.
[...] Una drammatica scrittrice operaia è stata crudele contro il tempo libero; ma il suo diario nero dice la verità sulle fabbriche? Qui, nel cuore di una fabbrica, accade spesso di ripensarci, di confrontarlo. Non c’è occasione migliore. Tuttavia non vi riusciamo; per le condizioni che mutano, perché passo tante volte dietro le schiene dei nostri delle presse ma ancora i loro veri pensieri mi sfuggono. La sociologia va sempre in cerca del suo metodo d’indagare e lo insegue. Se provo io a lavorare alle presse, io non sono loro. Se li interrogo, possono mentire. Se li osservo, posso descriverli, ma non capirli. Se mi metto nella loro testa, posso inventare un monologo interiore sbagliato. Essi, dovrebbero esprimersi; eppure, dal momento in cui si esprimono, tradiscono o superano quel silenzio caratteristico della condizione operaia, la quale, forse, non è deducibile che da segni indiretti, dalla vita esterna alla fabbrica. Allora? Per la famosa scrittrice operaia nell’automatismo uomo-macchina una parte di attenzione umana viene sempre assorbita: il dolore è provocato dalla fantasia che vorrebbe, potrebbe liberarsi, mentre una corda continuamente la ristrappa contro gli scatti della macchina; la peggiore, la più avvilente, sarebbe questa libertà dimezzata e finta, contro la quale il tempo libero non serve. L’autrice crede che le riduzioni d’orario siano moralmente false. Essendo la vita degli operai, degli uomini, materiale e spirituale, dentro il lavoro, di che cosa si alimenteranno fuori della fabbrica? Nel lavoro devono essere liberi, cioè nel momento in cui vivono; e il tempo libero non ha senso se non è ritagliato dal lavoro. [...]
18.
[...] L’ufficio personale di domani dovrà aguzzare l’ingegno per riscoprire le persone nascoste e fuse nel brusio di questa aula lunghissima e compatta di banchi; gettare colpi di sonda nel fondo produttivo, civile, dell’officina, sempre più anonimo. Le singolari avventure di ciascuno finiranno, e l’assunzione non apparirà più come il giorno critico della vita, il giorno della nascita. Sotto la stratificazione dei mesi e degli anni di fabbrica, tutti in apparenza identici, l’ufficio personale dovrà razionalmente disseppellire le persone per tenerle a galla; stabilire un sistema per capirli e conoscerli, anche senza ricordarne a memoria il nome. Quel giorno il mio successore avrà più tempo, perché la falla della portineria sarà chiusa; ma gli operai si mostreranno con una faccia più collettiva e più temibile. [...]
19.
[...] Alla stazione era tardi, era l’una meno dieci, per il treno dell’una. M’ero anche fermato lungo la strada per scrutare il mare, perché mai più avrei lavorato al mare. Ora attraversavo il piazzale della solitaria aristocratica stazione. Due lunghissime automobili nere, cariche di poliziotti in grigioverde e di armi, tagliando il piazzale si precipitarono in quel momento dalla città, imbucandosi in un lampo nel tunnel verso la Statale. Verso la fabbrica? Che cosa era accaduto? È tornato Donnarumma all’assalto ! Un imprevedibile malcontento, una vera rivolta, covata da mesi senza che nessuno se ne fosse accorto, è scoppiata stamani, proprio il giorno del destino. Telefonare ! Subito, telefonare. Tornare indietro se è accaduto qualcosa; ricominciare da capo, felice di essere costretto a non partire. Le due automobili ministeriali, stipate di divise e di fucili, potevano essere il segno di una nuova disperazione. [...]

about

L'album OTTIERI // DONNARUMMA nasce all'interno del progetto audio-drammatico LA FABBRICA TOTALE, dedicato a una ricognizione non sistematica degli incroci italiani tra la più antica e influente delle tecnoscienze novecentesche, l'organizzazione scientifica del lavoro, e la cultura del secondo dopoguerra.
Come dice il titolo stesso, si tratta di una selezione ragionata di testi dal romanzo di Ottiero Ottieri (1924-2002) "Donnarumma all'assalto", pubblicato da Bompiani nel 1959.

In 'Donnarumma' Ottieri racconta, usando 'segmenti di invenzione letteraria', la propria esperienza di selezionatore del personale nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli (città che nel romanzo diventa la più anodina 'Santa Maria' ...), dove giunge il 1 marzo 1955, dopo le vicissitudini legate alla meningite tubercolare che lo aveva colpito due anni prima, nel 1953, appena assunto in azienda. Lo stesso presidente della Olivetti, Adriano, lo destinò, come primo incarico, alla nuova fabbrica vicino Napoli, anche per i vantaggi climatici.

A Pozzuoli, nello stabilimento 'più bello d'Europa', progettato dall'architetto Luigi Cosenza, Ottieri resterà solo fino a novembre del 1955, ma la sua esperienza gli appare così rivelatrice dei limiti di un capitalismo pure moderno e illuminato nello scalfire il muro dell'atavica e irrisolta questione meridionale, da spingerlo a trasformare il diario tenuto in quelle settimane in un romanzo compiuto.

E' lo stesso Adriano Olivetti, sebbene diversi tra i suoi collaboratori (come Geno Pampaloni, Cesare Musatti e soprattutto, il direttore dello stabilimento puteolano, Rigo Innocenti) gli avessero consigliato di adoperarsi quantomeno per ritardarne la pubblicazione, a dare il suo benestare all'uscita del libro.
Una decisione coraggiosa, quella di Olivetti, che capiva bene i rischi per l'immagine della sua azienda e, pare dalle lettere scambiate con Ottieri, presa per principio, senza aver letto personalmente il manoscritto.

A noi che leggiamo oggi il libro, la fiducia in Ottieri appare fondata e non solo per il successo che lo ha quasi subito accompagnato.
Fin dalle prime pagine il lavoro di Ottieri dichiara infatti la sua lealtà a raccogliere e descrivere gli esiti della sfida necessaria lanciata dalla ragione neoilluminista alle vicissitudini della storia e agli scogli che si frappongono all'entrata del meridione italiano in una stagione di modernità sociale e politica.
Un'intenzione che resta cristallina per tutta l'opera, pur sotto i colpi durissimi della sensazione, più volte esposta, di non stare in effetti, come dipendente dell'azienda, selenzionando per includere, ma piuttosto per escludere e per scremare. Separando, in un territorio devastato dalla disoccupazione, gli eletti dai reprobi.

Ecco come prende il via il romanzo:

«Sono un impiegato addetto all’ufficio del personale del nuovo stabilimento meccanico costruito a Santa Maria da una grande Società del nord. I miei compiti riguarderanno specialmente le assunzioni di operai: esse vengono fatte con l’aiuto della psicotecnica, la scienza dei test, e con l’intervista di selezione.
Questo è un colloquio durante il quale si indaga la personalità dell’intervistato.

Lo stabilimento funziona da qualche anno, ma ha avuto inizi graduali, e solo adesso vi si crea una struttura organizzativa, ancora fresca, gracile. I dirigenti sono pochi e accentrano molte mansioni. Il direttore dello stabilimento tratta lui con la commissione interna; l’ingegnere, direttore della produzione, si occupa lui degli operai, che conosce uno per uno. L’ufficio del personale è appena nato, e sarà tutto assorbito dal problema delle assunzioni, dei rapporti con l’esterno: di contro a tre, quattrocento assunti e ad una espansione prevista di qualche altro centinaio, tutta la zona - popolatissima - ha fatto domanda per il nuovo stabilimento. Solo quando avrà fronteggiato le richieste esterne e acquistato prestigio presso i capi, l’ufficio del personale si occuperà anche degli operai interni. Per adesso il vero capo del personale è il direttore.

Lo stabilimento è sorto come un’officina, un reparto staccato dagli stabilimenti centrali del nord. Piuttosto che allargare questi, nel nord, con un nuovo edificio, la costruzione è stata trasportata nel Mezzogiorno. Non è un capannone: l’architetto ha progettato una delle più belle fabbriche d’Europa, colorata, circondata da un giardino; e intorno ad essa l’infermeria, la biblioteca, la mensa. Vi nasce un mondo unitario, caduto dall’alto nelle sue forme, ma per affondare nella terra e nello spirito di questo paese.

Questo paese è come una miniera umana; cova fra le più profonde ricchezze d’uomini nel mondo. Noi siamo venuti a scoprire un nuovo, difficile oro, sepolto dalla natura e dalla storia.»

credits

released June 3, 2021

La voce, negli album, è quella di Barbara Bonora, che ha selezionato i testi e curato il loro montaggio, là dove tematicamente necessario.
Le registrazioni e l'editing audio sono stati realizzati tra dicembre 2020 e maggio 2021.

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L'aquila Signorina Bologna, Italy

L'aquila Signorina, dal 1995, sono Gabriele Argazzi e Barbara Bonora. Negli ultimi quindici anni hanno legato il loro lavoro come attori, registi e drammaturghi alla storia della scienza. Accanto alla messa in scena di bioplay su scienziati e scienziate, Le Signorine hanno di recente iniziato a immaginare e produrre percorsi audiologici all'incrocio fra letteratura, società è tecnoscienza. ... more

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