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LA FABBRICA TOTALE - Volponi // Memoriale

by L'aquila Signorina

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1.
[...[ La fabbrica era invece immobile come una chiesa o un tribunale, e si sentiva da fuori che dentro, proprio come in una chiesa, in un dentro alto e vuoto, si svolgevano le funzioni di centinaia di lavori. Dopo un momento il lavoro sembrava tutto uguale; la fabbrica era tutta uguale e da qualsiasi parte mandava lo stesso rumore, più che un rumore, un affanno, un ansimare forte. La fabbrica era così grande e pulita, così misteriosa che uno non poteva nemmeno pensare se era bella o brutta. Ed anche a tanti anni di distanza, dopo tanti anni durante i quali vi ho lavorato, non so dire se la fabbrica sia bella o brutta, perché per tanti anni questo interrogativo anche se mi è venuto in mente non è mai stato decisivo, proprio come per una chiesa o per un tribunale. Oggi posso dire che la fabbrica è sempre stata in un ordine perfetto anche durante i lavori d’ampliamento o di riparazione, sempre pulita e sempre sconosciuta. Questo vuol forse dire che la fabbrica è bella; ma io non posso dire che la fabbrica sia bella, guardandola da fuori o da dentro: cioè bella davanti a me, come una casa o un albero. Nel corso di tanti anni, qualche volta mi è sembrata bellissima; ma ero io a giudicare dentro di me, quasi senza vederla. [...]
2.
[...] Quasi a mezzogiorno la fabbrica era in gran parte illuminata e ogni uomo poteva disporre della sua luce Non c’era alcun disordine: né mucchi di materiali nei cantoni, né macchine ferme. Il soffitto era quasi tutto coperto di tubi di ferro di varia dimensione, che andavano anche al di là del reparto. Ogni tubo era di un colore diverso, così che uno poteva seguirlo fino in fondo e sulla testa non sentiva un nodo o una maglia confusa e minacciosa. Appoggiata sopra una macchina vidi una fotografia di Fausto Coppi. Gli uomini – quei reparti delle officine che attraversavamo erano di soli uomini – si muovevano liberamente, non allontanandosi però dal loro posto, e parlavano sempre più tra di loro Qualcuno anzi cominciava a muoversi e a fare un lavoro diverso dagli altri. Stava fermando e pulendo la sua macchina per l’intervallo di mezzogiorno. Poi uno si staccò dalla macchina e si diresse verso una porta di vetro sul fianco del reparto. Fu come un segnale e molti altri cominciarono a camminare. La nostra squadra di nuovi, di quattro più una guardia, era l’unico gruppetto che si muovesse compatto in quella parte della fabbrica. La guardia ci disse di fermarci e si avvicinò a un uomo che stava curvo a guardare il motore di una macchina. Mentre guardava basso, con una mano alta, a sinistra sul fianco della macchina, girava con dolcezza una manopola. La macchina strideva piano e perdeva in una bacinella un olio, un latte, e sembrava che in realtà soffrisse come un animale ferito. L’uomo era il capo, Michele Grosset. [...]
3.
[...] Le due settimane passarono in un lampo e ci ritrovammo nel nostro reparto con l’orario normale. Ricominciare a lavorare la mattina, in mezzo al reparto completo e a tutta la frenesia della fabbrica, non mi dispiacque e anzi per qualche giorno mi sembrò di aver ritrovato una buona compagnia. A settembre cominciarono a circolare le voci che il nostro reparto sarebbe stato trasformato. Sarebbe stata costituita una specie di officina della ghisa, dove avrebbero lavorato insieme fresatrici, trapani multipli, trapani sensitivi, torni e pulitrici. Verso la fine del mese Grosset ci avverti ufficialmente della trasformazione dell’officina e ci disse che di ventisette frese ne sarebbero rimaste sedici. Dopo il suo discorso cominciarono i malumori e i sospetti; nessuno aveva capito se conveniva restare o essere trasferiti, tanto più che non si sapeva dove. I pareri erano diversi, ma alla fine la gente si riconosceva e si raggruppava: i più anziani, i qualificati, quelli della città. Io e Pinna non sapevamo cosa dire, anche se Pinna pendolava tra un gruppo e l’altro e parlava sempre. [...]
4.
[...] Il giorno dopo non andai a lavorare. Rimasi a letto quasi tutta la giornata discorrendo con lo scarpone e l’indiano che nell’umidità di dicembre erano meno chiari, tanto che lo scarpone poteva anche essere un cane e l’indiano addirittura senza alcuna fisionomia. Dissi a mia madre che mi sentivo male. Per quanto le mie decisioni fossero chiare, i miei pensieri, come le macchie, si allargavano e si deturpavano con tante frange e svolgimenti a catena. Mi perdevo in questa irrequietezza e le mie stesse decisioni finivano per sembrarmi piccole e irreali e di un’ostinazione poco cristiana. Mi toccavo il petto e le braccia e mi sembrava che la carne si sfaldasse nel sudore. Mi sembrava che sotto il costato si potesse veramente avvertire con le mani il caldo delle piaghe. Se mi reclinavo sul mio corpo, un gusto perverso mi tornava dai tempi del collegio, insieme al desiderio di essere veramente ammalato, a letto, senza compiti e senza lavoro, curato da mia madre, in dolce armonia, come un buon figliolo, contento della protezione. Mi faceva reagire a questa tendenza soprattutto il fatto che questa volta fossero altri a decidere per me e in modo così letale, così feroce contro tutte le speranze che mi spingevano. Avevo però paura di cedere per i segni che riscontravo in me o tante erano le mie sofferenze che non riuscivo più a contenerle. Mia madre, portandomi il cibo, mi passò lentamente una mano sulla fronte, per sentire la febbre e anche per asciugarmi. «Se almeno mi lasciassero a casa per le cure», pensai, e questa possibilità mi rese ancora più sconfortato di fronte alle mie decisioni. Avevo l’impulso di reagire, di andare da Tortora per smascherarlo [...]
5.
[...] in infermeria fu lo stesso Tortora a visitarmi. Fu molto sbrigativo; ammise la mia guarigione e certificò che potevo riprendere il lavoro subito. «Alle frese?» «Sì, sì, anche. Ma lei è specializzato?» «No, aspettavo la qualifica, quando lei mi mandò in sanatorio». «Allora? è indifferente il tipo di lavoro. Potrebbe andare in montaggio o ai magazzini o..». «No, voglio tornare da Grosset, alle frese». «Bene. Io scrivo di sì. Però riterrei opportuno anche una visita di controllo del professor Bompiero, domani o dopodomani. In fondo è lui che l’ha curata». «Ecco», pensai, «ecco che ricominciano con i controlli; ecco che uno mi manda dall’altro; ecco che mi rifanno i discorsi mettendo ciascuno una parola, una parola sempre più cattiva, sempre più cattiva, fino alla fine». Arrivato di nuovo all’Ufficio Personale, era ormai mezzogiorno. Cessò il rumore della fabbrica e cominciò quello delle voci, dai corridoi e dalle officine. A quell’ora alcuni venivano a comunicare qualche cosa all’Ufficio Personale; arrivavano in silenzio, si sistemavano sulle sedie della sala d’aspetto ed evitavano l’un l’altro di guardarsi. Pensione, cambio di posto, aspettativa, assunzione al lavoro di congiunti, lotte con i capi, erano i motivi che li portavano su quelle sedie, in quel silenzio Alcuni si presentavano regolarmente una o due volte alla settimana o al mese, come se gli bastasse parlare. Prendevano tutti i pretesti per andare a parlare, specie se questo poteva avvenire in orario di lavoro; chiedevano informazioni per la malattia, per la scuola dei figli o facevano domanda di un alloggio, di un prestito, di un aumento, di un vitto speciale, di un trasferimento. Uno di questi diventò Pinna [...]
6.
Instabile 11:03
[...] Due giorni dopo che lavoravo nel reparto di Manzino, fui chiamato dall’infermeria per la visita di controllo del professor Bompiero. Non contento di avermi bussato, guardato, rigirato, l’illustre professore voleva rifare una serie di lastre. Adesso ricominciano, pensai; ricominciano a sentire, ad accanirsi contro di me. La sera, invece di ripartire subito, tornai dal Commissario di Pubblica Sicurezza e gli lasciai un messaggio: «Il professor De Saint Martin mi ha dichiarato guarito a tutti gli effetti in data 16 maggio 1949. In data successiva di pochi giorni, durante i quali è da escludere che possa essersi riaperto un processo patologico a carico dei miei polmoni, il professor Bompiero malignamente vuol operare altri controlli allo scopo di pescare nel torbido. Cosa ne pensa la P.S.? Chiedo la sua protezione». Lo stesso discorso feci la sera, a Candia, al maresciallo dei carabinieri. Solo questi interventi e la protezione assicuratami poterono darmi tranquillità e la forza di presentarmi a fare le lastre. Speravo anzi, dentro di me, che il giuoco di Tortora e Bompiero si scoprisse, che avessero il coraggio di dire subito che le lastre mi fotografavano di nuovo malato, e che di nuovo essi proponessero di allontanarmi dalla fabbrica. Allora sarebbe scattata la trappola; ma per loro, con l’irruzione della P.S. e dei carabinieri di Candia ! Purtroppo, come ho accertato solo in seguito, anche questi, almeno i capi, erano già, come lo sono ancora, complici di Tortora e forse quella sera stessa avevano provveduto ad avvertirlo [...]
7.
[...] I giorni di vacanza sono fatti per aspettare altre cassette di pezzi. Anche quelli che si lamentano dell’alto numero dei pezzi o del rumore o del caldo scrollano inutilmente la testa contro questi pretesti: la fatica era di usare tanto tempo nella fabbrica, nello stesso posto, nella inutilità del lavoro. Quelli che all’inizio mi sembravano i vantaggi della fabbrica a poco a poco erano diventati i suoi dolori. Coloro che lavoravano nelle officine di Candia andando avanti e indietro, mettendo in moto i motori e sbattendo gli sportelli, e che provavano le vernici sulla porta e sui muri, stavano molto meglio. Li vedevo qualche volta all’osteria che bevevano e parlavano; quelli della fabbrica non li vedevo più. Pensai che ottenere la qualifica avrebbe potuto mettermi in un’altra parte e fuori di questa situazione. Intanto andavo scoprendo meglio gli altri, i miei compagni. Li vedevo proprio nei loro gesti di lavoro, chi con una spalla più alta, chi più bassa, chi piegato e chi dritto, tutti con le mani in avanti come a scaldarsele e a proteggersi. E come davanti a un fuoco molto forte tutti avevano una smorfia sul viso. Tutti avevano un muscolo tirato, o le labbra strette, o gli occhi socchiusi o le sopracciglia aggrottate. Vuol dire che tutti avevano un pensiero che batteva dentro le loro teste e rimbalzava su tutta la fabbrica e ancora batteva. La fabbrica non dava distrazioni a tale pensiero: un albero, un uccello, una parola, un passante. Non bastava levar gli occhi dal lavoro e muoverli in giro: non c’era nulla che non fosse un pezzo della fabbrica. [...]
8.
[...] L’ingegner Pignotti mi disse subito che si ricordava di me e che aveva pensato al mio caso e disse ancora che il reparto di Manzino e tutta una grande parte dell’officina erano per lui un’incognita, un’isola scura nella fabbrica. «Ma veniamo a noi. Perché tu hai risposto male a Manzino? E uno dei capi migliori di tutta la fabbrica e credo che vi tratti bene. È proprio questo che con voi non si capisce; se un capo vi tratta bene e con buone maniere lo chiamate ipocrita e lo prendete in giro, se uno vi tratta con fermezza allora è un presuntuoso quando non diventa un aguzzino o un servo del padrone; poi finite per mettervi dalla parte di certi capi ancora più severi degli altri. Questo è un altro dei misteri dell’officina. Comunque, per questa volta, io non ti darò punizioni. Ma m’interesserebbe sapere perché hai risposto male a Manzino. Sei stato istigato? sono stati i discorsi contro la Direzione che girano in quei reparti a farti pensare che fosse possibile assumere un tale atteggiamento?» Non mi diede il tempo di parlare, che da dietro la scrivania e poi sopravanzandola con i gomiti, fece di nuovo cadere la sua vociona: «I discorsi vanno fatti fuori e anche lì con giudizio». Alla fine non avevo capito che cosa volesse l’ingegner Pignotti. Io non avevo potuto parlare; avevo appena accennato alla qualifica che Pignotti aveva detto: «La qualifica è niente. Si può avere e non si può avere. Non è la qualifica che..». Tutto il discorso per me era rimasto in quella frase ambigua, che poteva darmi modo di dubitare chissà per quanti altri giorni. [...]
9.
[...] per tutti la fabbrica era come un passaggio, per giunta sempre quello. Io invece cercavo ancora le ragioni di una vita completa, forse perché ero il più lontano di tutti dal poter averla. Non avevo amici e non vivevo particolarmente in nessun paese, era quindi ben giusto che cercassi il mio ambiente in fabbrica. E coloro poi che pensavano di avere la loro vita fuori, che cosa più delle loro vecchie abitudini e nostalgie potevano dare a quella vita? Cigliano, l’uomo che stava davanti a me nella fila, diceva spesso: «Conosco di più questa ragazza», e indicava la sua compagna di banco, «che mia moglie, dalla quale ho avuto tre figli». Pensavo anche a quello che l’ultima volta mi aveva detto l’impiegato dell’Ufficio Personale: «Deve far conto che la fabbrica sia un paese, del quale un uomo deve accettare le leggi e nel quale, per vivere, deve circolare, fare le sue amicizie, eccetera». Come potevo considerare la fabbrica un paese? A Candia io avrei potuto vivere in tanti modi ma in fabbrica nell’unico modo comandato. A Candia avrei potuto scegliere le mie amicizie, variarle, parlare secondo i miei pensieri, in fabbrica no. Queste conclusioni erano chiare dentro di me, eppure continuavo a cercare il modo di vivere meglio nella fabbrica, il filo di un legame più stretto. Forse questo accadeva perché avevo paura più degli altri che la fabbrica mi respingesse di nuovo e perché in quel legame, forse, io cercavo una rivincita contro tutte le ingiustizie subite. In ogni caso doveva essere difficile per tutti dividersi tra la fabbrica e fuori. [...]
10.
[...] Soffrivo ma con più calma. Tutto l’ambiente, più largo e più luminoso, sembrava un posto inesistente, che dovesse sparire presto. Eravamo una massa confusa, che non chiedeva nulla, nemmeno a ciascuno di noi. Eravamo tutti distratti, anche se i nostri pensieri si accanivano. A certe ore nel reparto suonava la musica. Io l’ascoltavo e mi faceva bene. Spesso però mi ricordava il sanatorio, dove i malati cominciano ad aprire la radio alla mattina presto. Quando suonava la musica, il capo si alzava e cominciava a camminare su e giù nel corridoio in mezzo ai tavoli. Non guardava e non diceva niente a nessuno. Si chiamava Salvatore e faceva collezione di francobolli. In tutto il tempo che stetti con lui mi parlò soltanto due o tre volte, quando doveva farmi qualche comunicazione dell’infermeria o dell’Ufficio Personale. Accompagnava le parole con un biglietto. Ricordo che per firmare impuntava la penna un attimo prima della esse maiuscola. Il suo silenzio era come tutto quello del reparto e nei suoi occhi non si leggevano intenzioni. Così rimasi a lungo in quel posto senza seccature e ormai non m’importava più nulla della qualifica e del lavoro. Montare i pezzi era noioso ma anche faticoso, di una fatica che mi prendeva e mi accompagnava per tutta la giornata come un cattivo umore. [...]
11.
[...] C’era gente in quel reparto che vi lavorava da vent’anni, al punto che non vedevano e non giudicavano più il lavoro: la fabbrica era il loro grembiule nero; non facevano nemmeno discorsi sulla paga, sugli avanzamenti e le valutazioni, stavano nella fabbrica e basta. Non c’era nessun affiatamento e correvano soltanto i più inutili pettegolezzi. Ciascuno se ne infischiava del lavoro degli altri. Le ragazze più giovani stavano per conto loro; le più belline ancora di più. Io soffrivo ma mi ero proposto di presentare all’Ufficio del Personale una richiesta di trasferimento soltanto dopo un anno. Arrivato dicembre con i suoi giorni brevissimi, finiva la giornata ma non l’orario di lavoro e fu molto pesante passare in fabbrica le due ore e più di oscurità che precedevano l’uscita. Era come immergersi con tutta la fabbrica nel buio che diventava umido per i riflessi del neon al margine degli edifici e pesante per tutti i rumori che cadevano. Nel buio tutto sembrava senza fondo. La fabbrica era già riscaldata ed io respiravo con fatica, avvertendo un’infinità di contaminazioni, più ancora che nell’estate, quando tutto acquistava un senso di acidità; si sentivano gli odori che rimanevano fermi, specialmente quelli umani. Sentivo gli odori delle ragazze che si alzavano a tratti da sotto le maglie. [...]
12.
[...] Cominciai a trovare molti canaletti dove le acque si purificavano tra le barbe delle radici e filtravano tra le terre granulose. Nei punti cavi e ombrosi scintillavano costruzioni di ghiaccio. I canali non erano profondi più di un metro ma con le piccole cascate, le erbe, le radici le grotte di terra, i ghiacci, i movimenti dell’acqua, avevano un aspetto misterioso così convincente che si ingigantivano ai miei occhi. Ero così preso dalla magia che potevo pensare di essere travolto da una cascata di gocce e di fili d’erba o di cadere in una spelonca di ghiaccio. L’aria chiara, le acque pulite e i ghiacci mi davano anche una voglia spasmodica di bere, di assorbire quegli elementi. A un tratto, vidi un guizzo rapido in un canale: avevo sorpreso un luccio grosso come un braccio d’uomo che aveva azzannato un altro pesce. Il luccio era fermo un attimo per finire la sua preda; lo vedevo quasi emergere dalla prima superficie. Il suo occhio era dritto nel mio ed era l’occhio di un assassino sorpreso, che non ritira il coltello. Prima di fuggire doveva inghiottire l’altra creatura, della quale in quell’attimo rimasero appena le scosse nell’acqua. Per un altro attimo il luccio rimase fermo, con il suo occhio nel mio, con la sua bocca dentata che respirava aperta per la fatica. La scena mi spaventò e quell’ambiente e quel cielo pallido e lontano, sul quale non si poteva leggere né scrivere niente, mi dichiararono ancora più solo e spaventato Non c’era nulla da fare, anche per me; anch’io muovevo soltanto l’acqua, destinato alla fine. [...]
13.
[...] Chiusi la finestra; cercai di prendere sonno, cullato dallo scroscio della pioggia. Non riuscivo. Sentii bussare alla porta e capii che era mia madre sotto l’acqua; me l’aspettavo perché avevo chiuso la porta proprio per lasciarla fuori. Scesi ad aprire sperando di poter prendermela con lei; ma la realtà che mi dava una intenzione così precisa, a differenza di tutte le altre volte in cui ero stato spinto contro la mia volontà da un risentimento che si gonfiava come una tosse, mi vinse ancora, mostrandomi mia madre sofferente sotto la pioggia da apparire proprio la madre mia e di tutti i miei dolori. Le raccontai tutto, cioè la visita che dovevo subire, e le diedi tutti i soldi della Presidenza. Riuscimmo a parlare di qua e di là della tavola. Mia madre mi confortava e parlava della mia malattia come se realmente esistesse; io non reagivo, anzi continuavo i suoi discorsi ed accettavo anch’io la mia malattia. Pensavo intanto, senza che questo pensiero disturbasse i miei discorsi, che Tortora aveva vinto. E questo pensiero non mi dava nemmeno le ansie e la ribellione di sempre perché era fatto su una cosa ormai avvenuta. Tortora aveva vinto; malato o no era ormai vero che io lo ero. Non dormii, non mi alzai, non andai a lavorare; non feci nulla perché da parte mia le cose erano compiute e dovevano soltanto avvenire. Dopo tre giorni venne il solito messo a cercarmi a casa. Lo feci entrare e gli dichiarai di accettare l’invito a presentarmi in infermeria. Così avvenne, davanti a quattro medici. Tortora, Bompiero, Pietra, primario di Torino, Gherardi, direttore di un sanatorio a Saronno. [...]
14.
[...] Da piantone, i miei pensieri non andavano a mia madre o alla mia casa; qualche volta al lago, quando qualche mezzo pensiero vinceva gli altri, aiutato da qualcosa come uno spigolo, una nuvola, un graffio nel cielo, oppure quando avevo bisogno di un'uscita immediata dai ricordi e dalle nuove supposizioni sul comportamento dei medici. Di queste però non ne facevo e non ne faccio più molte. Da piantone ho imparato a guardar meglio la gente; la gente della fabbrica, i manovali blu sporco, le donne comuni dal grembiule nero, gli operai azzurri, i capi in borghese; il modo comune di sollevarsi appena fuori della porta, di guardarsi intorno, di camminare. Riuscivo ad attribuire a ciascuno un lavoro e questo mi portava a ricordare i reparti e ad immaginarmi quelli che non conoscevo. Da quel posto di piantone immaginavo che ogni lavoro nella fabbrica fosse facile, almeno fisicamente, anche se ogni lavoro mi appariva legato a una serie di pratiche complicate, di cose da saper fare, di norme da seguire, e soprattutto di conoscenze da riverire, che mi facevano capire come io non fossi adatto e come per me tutto fosse più difficile, ormai impossibile. Io non avrei mai capito o accettato di capire come si bussa a certe porte, come si attraversano certi corridoi; quali sono le persone da salutare con rispetto e quali da evitare; quali i discorsi convenienti. Questa era la mia evidente disgrazia e la vedevo camminare subito fuori della fabbrica come la polvere in un raggio di sole, dietro i passi e le tute degli operai più vecchi e di altri brutti e storpi, che ancora potevano stare dentro, come a me era impedito. [...]

about

L'album VOLPONI // MEMORIALE nasce all'interno del progetto audio-drammatico LA FABBRICA TOTALE, dedicato a una ricognizione non sistematica degli incroci italiani tra la più antica e influente delle tecnoscienze novecentesche, cioè l'organizzazione scientifica del lavoro, e la cultura del secondo dopoguerra.
Come dice il titolo stesso, l'album costituisce una selezione ragionata di testi dall'omonimo romanzo di Paolo Volponi (1924-1994), pubblicato da Garzanti nel 1962.

Il libro, scritto tra il 1959 e il 1961, venne pubblicato nel 1962, quindi all’indomani di quel dibattito su “Letteratura e industria” che era stato ospitato nei mesi precedenti sui numeri 4 e 5 della rivista «Il Menabò».

Si tratta di un romanzo - il primo di Volponi, noto fin lì solo come poeta - concettualmente diverso dall'altra opera 'olivettiana' di quegli anni, il 'Donnarumma' di Ottieri, uscito tre anni prima. E non solo da quella.
Ignorando lo stile naturalista che aveva contraddistinto le narrazioni che molti altri autori avevano allestito sul teatro della fabbrica, l’autore compie un atto di identificazione con il suo delirante antieroe, Albino Saluggia. Ne assume la voce e il punto di vista; sollecita il lettore, mediante una 'scrittura doppia', a inscrivere la vicenda entro uno spazio indirettamente autobiografico.

«Ho cominciato a scrivere» dichiara lo stesso Volponi «quando mi sono sentito in possesso di uno strumento linguistico attivo, capace di un ordine di valori originale e in grado di mantenere la vicenda autonoma, al di là della compiacenza lirica e del meccanismo narrativo. Sono stato aiutato, o forse è meglio dire mosso, dalla pena del mio lavoro quotidiano in una grande fabbrica, toccato dai problemi di un mondo in convulsione come è quello industriale, traboccante e incandescente, che cerca di correre dietro al progresso scientifico portandosi appresso un grosso bagaglio medioevale».

Quanto fosse profonda questa pena e il legame stesso con 'la grande fabbrica', cioè lo stabilimento di Ivrea della Olivetti, dove Volponi aveva un ruolo manageriale oltre a un'amicizia stretta con il patròn Adriano Olivetti (che morirà di infarto nel 1960, due anni prima dell'uscita del libro ...), lo si capisce dal fatto che, in 'Memoriale', a malapena tenta di nascondere la città reale sotto una timida I maiuscola. Mentre tutti gli altri luoghi che nomina sono riconoscibili e rendono l'identificazione del tutto immediata.

Del resto era ad Ivrea che Paolo Volponi aveva toccato con mano come anche nella più progressista delle industrie italiane, che portava avanti una politica delle relazioni umane attenta al benessere sociale dei dipendenti, non mancavano episodi, anche gravi, di insubordinazione e ribellione spontanea, soprattutto da parte di operai che non riuscivano a integrarsi nelle trame dell'organizzazione aziendale.
Alla base di questo disagio c'era spesso l'estrazione contadina - il 'bagaglio medioevale' già ricordato - che faceva sì che il basso livello di preparazione tecnica, unito alle esigenze intrinseche del lavoro in un'azienda meccanica di grande serie, li portasse a soffrire di un senso di sradicamento e di alienazione.

In un'intervista, Volponi ebbe ad indicare il nucleo generativo della fabula di 'Memoriale' in una confusa missiva indirizzata alla presidenza dell'azienda di Ivrea proprio da uno di questi operai, poco dopo la metà degli anni '50:
«Una volta, nel mio ufficio di responsabile dei servizi sociali dell’azienda mi arrivò, assieme a tante lettere che arrivavano, una lettera che mi colpì perché era molto dolorosa. Era proprio come un grido, un po’ insensato com’è un grido senza un fine e senza un principio.
Era una lettera che Adriano Olivetti mi aveva passato perché io vedessi il caso e decidessi che cosa si poteva fare per questa persona. Era una lettera con una calligrafia da quinta elementare, su un foglio protocollo, dentro una busta gialla, di una facciata e tre righe dietro; insomma molto breve.
Lo scrivente, un operaio dell’azienda di cui non ricordo nemmeno il nome, si rivolgeva all'Ingegner Olivetti per dire che lui stava male, ma che avrebbe continuato a lavorare volentieri nella fabbrica. Erano i medici di fabbrica che non volevano che lui lavorasse, perché dicevano che era tubercoloso e doveva ricoverarsi. L'operaio chiedeva così al presidente di cacciare quei medici cattivi, sostituendoli con altri che provassero che lui stava bene e che poteva lavorare nella fabbrica.
Ecco, mi parve in nuce la storia di 'Memoriale' e dunque io conservai questa lettera.
Ovviamente sul momento mi sono interessato al caso, l' ho mandato avanti come doveva essere mandato avanti e questa persona, che tra l’altro era davvero tubercolotica, con delle crisi, degli sbocchi di sangue si diceva una volta, ma era poco corretto, addirittura durante le ore di lavoro, fu effettivamente ricoverata e venne anche curata in termini di psicoanalisi.
Però, come dicevo, quella lettera io l'avevo tenuta e ce l'avevo sempre bene in mente e così è nato il libro che ho scritto, cioè 'Memoriale'»

credits

released June 3, 2021

La voce, negli album di 'La fabbrica Totale', è quella di Barbara Bonora, che ha selezionato i testi e curato il loro montaggio, là dove tematicamente necessario.
L'editing audio delle registrazioni, realizzate in vari momenti a partire da dicembre 2020, è stato fatto tra aprile e maggio del 2021.

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L'aquila Signorina Bologna, Italy

L'aquila Signorina, dal 1995, sono Gabriele Argazzi e Barbara Bonora. Negli ultimi quindici anni hanno legato il loro lavoro come attori, registi e drammaturghi alla storia della scienza. Accanto alla messa in scena di bioplay su scienziati e scienziate, Le Signorine hanno di recente iniziato a immaginare e produrre percorsi audiologici all'incrocio fra letteratura, società è tecnoscienza. ... more

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